piuttosto che indossare la maschera della non violenza
per coprire la propria impotenza"
Il Nostro corteo
La nostra giornata del 15 ottobre è iniziata 2 mesi fa, quando con decine di precari/e degli stati generali della precarietà, abbiamo deciso di accogliere l'appello che stava girando in Europa.
In questa scelta c'era la volontà di condividere e connettere a livello europeo le lotte contro l'austerity con le forme indipendenti di organizzazione e lotta alla precarietà: lo sciopero precario. Un percorso che si sta costruendo da più di un anno. Tempi lunghi, i tempi del sociale, frammentato e disconnesso, sicuramente molto diversi da quelli delle organizzazioni sindacali o partitiche che d'altronde sulla precarietà riescono a fare e capire molto poco.
A settembre siamo stati all'Hubmeeting di Barcellona per capire, costruire e confrontarci con le piazze euromediterranee che da oltre un anno si stanno mobilitando, accampando, occupando e resistendo.
Il loro “non ci rappresenta nessuno” è un nodo di riconoscimento fondamentale dei nostri percorsi e della volontà di prendere la parola in prima persona, come precari e precarie.
Allo stesso modo abbiamo partecipato e affrontato le decisioni nel coordinamento 15 ottobre, scegliendo un piano di confronto e con la reale intenzione di fare di quella una giornata, un momento dove si potessero far convivere le diverse sensibilità, scelte e prospettive.
Il 15 mattina siamo partiti da Piazza della Repubblica con il camion della rete degli stati generali per affrontare una lunga giornata.
Il nostro modo di iniziare è stato quello di occupare come "Inconciliabili" l'Hotel Exedra-Boscolo, simbolo del lusso e delle ricchezze precluse a noi e invece garantite, con il nostro sfruttamento, ad una ristretta parte della società.
Andando avanti, attorno a San precario e Santa Insolvenza si creava un nuovo spazio pubblico e indipendente dei precari. Per questo, a via dei Fori Imperiali, abbiamo scelto di evitare ogni provocazione delle forze dell'ordine schierate in massa prima di Piazza Venezia, a protezione di un potere sempre più isolato: ciò perché non abbiamo mai voluto mettere a repentaglio non solo il nostro spezzone ormai larghissimo, ma tutto il corteo.
Abbiamo dato vita ad un'occupazione di massa del foro romano con lo striscione “Whose history? Our history!” (La storia di chi? La nostra storia!). Qui avremmo voluto sostare molto più a lungo, per costruire un'ennesima presa di parola in prima persona, che fosse in grado di tradurre il nostro “non ci rappresenta nessuno” e parlare di una storia diversa da quella che altri hanno preparato per noi.
Purtroppo altre tensioni attraversavano il corteo in quei momenti: alcune pericolose e inutili iniziative anonime hanno acutizzato l'attenzione anche dei nostri cordoni, predisposti solo ed esclusivamente a difesa del possibile ingresso delle forze dell'ordine. La pressione dell'enorme massa di persone ci ha spinto a proseguire velocemente. Perciò percorrendo tutta via Labicana ci siamo resi conto che, alle nostre spalle, la situazione si era decisamente “infiammata”. Arrivati alla svolta di via Emanuele Filiberto, non siamo riusciti a far altro che constatare la pioggia di lacrimogeni ed arrivare di corsa fino a piazza San Giovanni, inseguiti dai blindati e da idranti che hanno letteralmente disperso l'intera piazza.
Nel giro di pochi minuti, man mano che il resto del corteo raggiungeva piazza San Giovanni, migliaia di persone hanno dato vita ad una resistenza verso le forze dell'ordine, mentre altri mantenevano la calma e permettevano a quelli più impauriti di passare. In modo spontaneo si è tentato di difendere una collettività; questa forma si è data in forma rabbiosa, di massa.
Noi eravamo in quella massa.
Con occhio critico
La nostra non vuole essere un'epica della giornata né l'apologia della violenza, perché sarebbe una visione molto limitata e diversa da una definizione di radicalità e determinatezza. Vogliamo invece affrontare i nodi critici a partire dai limiti che sicuramente abbiamo avuto. Innanzitutto, una mancanza di sangue freddo in alcuni passaggi, dal momento che eravamo coscienti di essere in una giornata a rischio di tensioni.
Questo ci ha fatto per esempio percorrere l'ultima parte di via Cavour e dei Fori Imperiali in una forma troppo inquadrata e militare, contribuendo alla confusione del momento, e contraddicendo la natura comunicativa dell'invasione di massa che ci accingevamo a praticare nel foro romano.
Per questo non siamo riusciti a riorganizzarci per determinare la nostra giornata, che non immaginavamo potesse finire a piazza san Giovanni, ma che avrebbe dovuto parlare nel resto della città. Del resto anche molti altri avevano dichiarato di volerlo fare nelle forme più diverse.
Da ultimo, ci sembra evidente che i livelli messi in campo possano essere differenti, eppure anche là dove colpiscano obbiettivi sensati devono sempre essere inseriti nel contesto della manifestazione: quello che abbiamo visto, invece, con macchine e luoghi in fiamme accanto a persone palesemente distanti da quelle pratiche, ci sembra irresponsabile ed escludente. Anche noi come tanti altri abbiamo subito questa sovradeterminazione.
Tuttavia, la dinamica della discussione deve gravitare, secondo noi, sull'opportunità o meno di una pratica, e mai nei termini di un cancro da estirpare nel movimento o nella infinita e parziale diatriba tra buoni e cattivi.
Responsabilità
Premettendo che noi siamo stati all'interno del coordinamento che ha organizzato il corteo riteniamo che debbano essere assunte delle responsabilità che non sono di poco conto. Questo perchè era evidente che quella giornata era di tutti e di tante differenti forme di espressione. La scelta di accettare un percorso e uno svolgimento monolitico non avrebbe permesso ad ognuno di vivere pienamente quella giornata, garantendo le varie possibili espressioni: ad alcuni di ascoltare gli interventi, ad altri di accamparsi, ad altri ancora di occupare pezzi di città e altri ancora di andare sotto i luoghi che preferivano. Nello stesso metro quadrato e nella stessa volontà politica è stato compresso ciò che molti, giustamente, sostengono che non possa convivere. Si è scelto di dare vita ad una pentola a pressione.
Ora, visto che tutto è pubblico, comprese le successive prese di posizione, riteniamo molto grave questa scelta e l'abbiamo ripetuto fino alla nausea in quel consesso. Dunque, visto che quello era anche il nostro corteo, abbiamo deciso di partecipare in una forma che tutelasse il nostro spezzone e ci garantisse di poterne uscire. Purtroppo così non è stato e non è dipeso da noi.
Per ultimo ci è sempre sembrato ridicolo e privo di prospettiva politica costruire percorsi in contrapposizione a qualcosa o qualcuno. Per questo abbiamo costituito in Italia un percorso politico pubblico che affermasse dei contenuti. Per questo abbiamo costruito quella stessa giornata in cui centinaia di migliaia di persone si sono mosse in Italia e milioni nel mondo. Per questo ci pare ridicolo pensare con cinismo che qualcuno abbia operato per far attaccare una piazza inerme semplicemente per fare torto a qualcun altro.
Per noi non esistono traditori della causa esistono solo opzioni e prospettive politiche diverse.
Il partito della paura
In tutto questo contesto, però, sta accadendo qualcosa di ancora più grave che vogliamo mettere a discussione.
E' evidente che, oltre a una gogna mediatica, in cui la nostra e molte altre realtà vengono additate come responsabili con accuse decisamente fantasiose e confusionarie, si sta passando alla produzione di un paradigma. Quello del partito della paura.
La manifestazione sembra diventata espressione solo di un dualismo esasperato nella contrapposizione e spariscono non solo i tanti contenuti e soggettività presenti, ma persino l'inoppugnabile verità dei numeri. Pare essere scomparso tutto il prima, tutte le piazze internazionali che da mesi, o come nel caso greco da anni, si stanno mobilitando.
Ma soprattutto, sembrano essere scomparse le politiche di austerity che la crisi porta con sé. Si produce oltre a tutto questo una strategia della tensione tirata fuori ad arte: con “terroristi urbani”, richiami a leggi speciali e chiusura incondizionata di spazi di libertà.
C'è un violentissimo attacco alle libertà personali e collettive di tutti noi come cittadini, che viene giustificato oltretutto con la delazione di massa che sublima così la propria rabbia. Orwell non sarebbe riuscito a raccontarlo meglio.
Tutto questo è pericoloso, inaccettabile e condanna la società del nostro paese ad un nuovo impotente silenzio. Esattamente come il divieto alla manifestazione della FIOM del 22 per la punizione inflitta da Alemanno alla città e al paese tutto. Da quale pulpito...
La spasmodica attenzione repressiva sulle legittime proteste della Val di Susa ci consegna un dato chiaro sulla chiusura di ogni spazio di possibile mediazione tra i territori e le persone da un lato e la politica e le istituzioni di questo paese dall'altro.
E tutto questo, guarda caso, in previsione di una stagione dove le persone, i precari e le precarie, sono sotto una pressione altissima e stanno appena iniziando a chiedere una trasformazione vera; non solo verso un governo di colore diverso ma per la trasformazione radicale di un sistema economico e sociale che non vogliamo.
Per questo riteniamo fondamentale che si apra un confronto pubblico largo, che possa confrontarsi non solo sulle pratiche del 15 ottobre ma anche sui contenuti, sulla capacità comune di prendere parola e porre con forza percorsi di agibilità politica e pratica delle nostre libertà.
Sempre con i movimenti, giorno dopo giorno, strada per strada.
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